Sulla torre della Valle

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Su per la montagna con gli asini o a piedi fino a duemila metri tra distese di rododendri, felci e lariceti, per guardare negli occhi i camosci e inoltrarsi nel silenzio dei boschi. E’ solo seguendo i passi di Mattia e Paola tra i segreti delle Alpi liguri, nell’Alta Valle Arroscia, che si può comprendere perché il richiamo di queste terre non sia rimasto inascoltato e abbia conquistato i loro sogni. Come tutti gli altri giovani della cooperativa di comunità Brigì, vogliono resistere allo spopolamento di queste aree e rimanere qui. Anche se i pastori sono spariti e pezzi di questo mondo stanno dissolvendosi. Colpa del mito del posto fisso. E della difficile lotta per la sopravvivenza che impone il lavoro in montagna. A Mendatica, la “Torre della Valle Arroscia” che si trova alle pendici del Monte Fronté, non si arriva alle cento persone. Due anni fa, all’improvviso, anche un’alluvione che ha isolato la frazione di Monesi e la stazione sciistica. Ma un gruppo di under 30 ha fondato la cooperativa di comunità Brigì, sostenuta dal bando CoopLiguriaStartup di Coopfond e nata in continuità con gli sforzi fatti precedentemente dalla pro loco e dal Comune per mantenere vive le tradizioni e riattivare il turismo. Oggi, alcuni ragazzi dalle città stanno tornando al paesino per  lavorare al parco avventura, organizzare le guide someggiate e i trekking o i corsi per i bambini in un antico mulino. C’è anche chi sceglie di restare a vivere qui. E intanto a Mendatica sono tornati anche i bambini.

Testo, foto e video di Angela Zurzolo

“L’anno 1918 e addì 27 ottobre, abbiamo comprato il mulo a Montegrosso” si legge tra le righe di un quadernino che Chiara tiene tra le mani. A scrivere ogni giorno dal 1890 al 1936 – mi spiega – era un tale Bernardo Nano, pastore che viveva sulle Alpi liguri e che registrava così ogni evento importante della sua vita. Tra le pagine, anche una lettera mai inviata al duce, la richiesta di un sussidio. “Lo scrivente è stato due volte ammogliato: dalla prima donna ebbe tre figli, uno dei quali morto all’età di anni 7. Dalla seconda ebbe sei figli, due morti in tenera età. Siamo in totale in dieci – in questo numero, anche la vecchia madre di 76 anni e un fratello – e ogni giorno devo procurare il pane quotidiano con il mio lavoro” scriveva sotto Natale, nel 1931. Di lui e di molti altri pastori che vivevano qui non sono rimasti che questi diari.

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“Quasi ogni famiglia nei paesini alle pendici del Monte Fronté, sulle Alpi liguri, ne conserva uno- racconta Chiara-. Alcuni risalgono al 1600”. Eppure lei, che ha poco più di 20 anni, mi spiega: “Mio padre ha vissuto per un periodo della sua vita da pastore, così come i miei nonni, e aveva le capre. Poi, è partito per fare il militare. E quando sono nata io tutto questo era sparito”. Cresciuta in città, a Pietra ligure, Chiara è tornata nel suo paesino e, insieme a un gruppo di giovani under 30, contribuisce alla creazione di opportunità di lavoro in queste valli, lavorando nella cooperativa di comunità Brigì.

Paola, invece, è andata via solo per poco. Vivere lontano dalle sue montagne le era insopportabile. Tornata, ha fondato l’impresa, aderente a Legacoop, insieme a Maria e Francesco, per aiutare anche altri coetanei a rimanere sulle Alpi. “Non c’è niente che mi manchi qui, questa è la mia casa” dice. Ma interi pezzi di questo mondo stanno svanendo. “Quando eravamo piccoli noi c’era il pastore in paese- ricorda-. Sentivi il suono dei campanacci e adesso è tutta musica che non c’è. Quella che ascolti è dei pastori piemontesi che vengono qui in alpeggio ma non è il tuo pastore”. I paesi si stanno spopolando a ritmi crescenti. “La mancanza delle persone che vanno via è forte. I terreni che prima erano coltivati ora non lo sono più- spiega Paola, che per mantenersi lavora in cooperativa e contemporaneamente gestisce un’azienda agricola a Valcona-. Una volta, sentivi le voci arrivare dai campi. Lo scorso anno c’era un silenzio impressionante. Poi, ci fai l’abitudine”.

Da quando è nata Brigì, nel 2015, il carico di lavoro si è raddoppiato per i dodici dipendenti e i cinque soci lavoratori della cooperativa. Bisogna gestire il rifugio, dividersi tra il parco avventura, il bar e i turisti, organizzare i corsi per le scuole all’antico mulino o i trekking e le guide someggiate, in compagnia di Pepe e Pinocchio, gli asinelli sardi che salgono insieme agli escursionisti fino alle cascate della Valle Arroscia, tra i sentieri pieni di piante e fiori, di ciliegie e di fragoline di bosco. “Pinocchio è il mio asino – racconta Paola-. Lo abbiamo salvato da una brutta fine. Quando ce lo hanno portato, aveva un capretto nano per compagnia ma all’epoca avevamo ancora una trentina di capre e un giorno ha deciso di unirsi al pascolo. Così Pinocchio si è offeso e da allora non lo ha più considerato”. Fortunatamente, poi, è arrivato Pepe. E ora vivono in simbiosi.

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L’idea della cooperativa di comunità è subito stata messa alla prova. “Due anni fa, è scesa un po’ di pioggia- scherza Ludovico-. Un metro di acqua in una notte. Ci è crollato tutto addosso. Si sono sciolte le montagne e hanno iniziato a correre giù. E’ andata distrutta una intera frazione, la stazione sciistica di Monesi è rimasta isolata” spiega. Per fortuna, Mendatica, che significa ‘manda acqua’, è stata protetta da alcune pompe che tengono sotto controllo le falde acquifere ma alcune case hanno ancora le mura incrinate a causa della furia dell’acqua. Quel giorno, Valeria era ancora a letto, quando il suo ragazzo le ha detto di svegliarsi e di uscire subito fuori. “Non sapevo se saremmo mai tornati” racconta Valeria, tornata da poco a Mendatica. Per un periodo della sua vita, infatti, si è trasferita in Germania per fare la ragazza alla pari e imparare la lingua. “Dopo un anno, sarei potuta andare via, ma ho deciso di rimanere per frequentare una scuola che si chiama HausBildung come Hotel FachtFrau”. Oggi, anche lei, come Paola, sua sorella, fa due lavori: uno sui campi con l’azienda che produce l’aglio di Vessalico, l’altro in cooperativa. Ed è proprio dalla stanchezza per il duro lavoro cui costringe la montagna che negli anni 60 è iniziato lo spopolamento.

A raccontarlo è Donatella che ha un agriturismo a Montegrosso, paesino con 40 abitanti stanziali. “Una volta ce ne erano 700. La montagna era coltivata fino ai 2mila metri ed era sfruttata fino all’ultimo centimetro– ricorda- Fino agli anni 70, qui, si contavano 20 pastori ma sono spariti. Tutta colpa del mito del posto fisso. Ma anche delle leggi italiane che complicano tutto anche solo per chi vuole aprire un caseificio”. Per il sindaco di Mendatica, Piero Pelassa, “le aree interne dovevano essere state fatte trenta o quarant’anni fa”. Invece, come accaduto sulle valli del Piemonte, “la gente si è spostata in pianura, sognando una vita diversa e un lavoro stabile, garantito dallo sviluppo della ferrovia e da aziende come l’Enel!” racconta lui che ha lasciato un posto in Italgas per tornare a lavorare a Mendatica, il paese dove viveva anche il nonno, pastore tenuto per anni prigioniero in Polonia.

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Ma se un tempo la città rappresentava una realtà capace di garantire stabilità, oggi la prospettiva si è rovesciata: disoccupazione e precariato rimettono in discussione tutto. Luca, ad esempio, 22 anni, vive ad Imperia ma ha trovato lavoro a Mendatica, nella cooperativa. “Mia madre abitava qui e a me è sempre piaciuto venirci” afferma. E poi c’è chi come Martina ha due lauree, una in Giurisprudenza e l’altra in Scienze dell’educazione, e pur essendo nata a Imperia ha deciso di vivere stabilmente a Montegrosso Pianlatte, paese semiabbandonato, dividendosi tra il lavoro di formazione con le scuole di Brigì e quello in città. E’ arrivata qui per amore, poi ci è rimasta. Anche perché qui gli affitti costano molto poco e si è a tre quarti di ora dal mare.

Un’intera generazione di giovani ha preso a scoprire il fascino della montagna e sta lottando per costruire delle opportunità. “Io qui ci sono nato e non ho alcuna intenzione di muovermi” racconta Mattia, che lavora in cooperativa. “Si fatica tutto il giorno e nel week end si esce solo il sabato ma ne vale la pena” racconta mentre aziona un antico mulino del 600, insieme al figlio dell’ultimo mugnaio del paese che gli sta insegnando come fare. Giulio, classe 1961, una volta viveva qui con la sua famiglia. Ma non amava affatto la vita a Mendatica. “Troppo lavoro e non si vedeva mai una lira” dice. Per questo, dopo il militare non è più tornato. “Questo mulino ha tolto la fame a un sacco di gente. Venivano qui dai paesi vicini. Si macinava la notte e uno stava di guardia perché era proibito macinare di più del dovuto, anche se si soffriva la fame” sospira.

Suo padre è stato per 8 anni in guerra. “Veniva tenuto prigioniero in Germania. Quando è tornato, è arrivato ai piedi del monte Farné e ha chiesto: sono ancora tutti vivi lissù?”. Stravolto da quell’esperienza, ha subito ripreso a macinare e a mettere in funzione quel mulino. Anche se, durante la sua assenza, suo fratello, completamente cieco, aveva continuato a farlo girare. “Andava al torrente, metteva una tavola nell’acqua e lo azionava. Difficile capire come ci riuscisse, era non vedente” spiega.

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Loro sono stati gli ultimi mugnai di Mendatica. “Ho visto mio padre piangere come un bambino, quando lo ha chiuso. Ci ha fatto la vita, qui” dice Giulio che mi spiega che il padre era capace di riconoscere la qualità del grano macinato dal profumo, anche da lontano. I ragazzi della cooperativa Brigì devono spesso far fronte allo scetticismo di parte degli abitanti di queste aree. Intanto, però, stanno facendo rivivere il mulino, insegnando ai bambini delle scuole come funziona e a capire il ciclo di produzione del grano. Per non perdere un pezzo di storia.

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La cooperativa ha messo in rete esperienze diverse. Collabora anche con il laboratorio di ceramiche che ha creato Carla, per insegnare a tutti coloro che lo vogliono, gratuitamente, l’arte della manipolazione della creta. “La morte di mia sorella, a causa di un tumore, mi ha appesantito la mano e così dall’acquarello mi sono buttata sulla creta perché la devi manipolare, battere, impastare. E così ho scaricato la rabbia- confessa-. Stare con le altre persone mi ha molto aiutato”. Lei si è spostata dalla Valtellina a questi monti per amore, per poi rimanere per sempre. Ad imparare a usare la tecnica, anche una signora di 85 anni. Lentamente, ogni risorsa relazionale, economica e sociale sta venendo riattivata perché la partecipazione vinca lo scetticismo e il pessimismo di chi abita questi luoghi.

“La nostra civiltà è sempre stata accogliente e la comunità pronta a sostenersi vicendevolmente” spiega Maria, tra le fondatrici di Brigì. Quando mio padre è morto, qualcuno nella comunità ha accudito il nostro bestiame. Ancora oggi non so a chi dire grazie” racconta Celestino, uno degli ultimi maestri di Mendatica che conosce queste montagne come le sue tasche. Storicamente, sin dall’800, in paese, pastori e agricoltori si erano organizzati in società di mutuo soccorso e, in caso di malattia di un socio, tutti gli altri svolgevano il lavoro che avrebbe dovuto fare lui. C’era anche una cassa comune per coprire le spese in caso di funerali.

“Dai miei nonni, poi, ho imparato ad accogliere tutti con un bicchiere di vino e un sorriso. Lo stesso dai momenti più tragici per la nostra comunità” aggiunge. Del resto, quando su questi monti si scontravano i partigiani, i fascisti e i tedeschi, la gente del posto ha sperimentato l’importanza del tutelare la vita propria e altrui. “Tutti si sono premurati di dare i vestiti dei propri familiari ai soldati che venivano dal fronte francese perché si mimetizzassero e non finissero nei campi di concentramento in Germania” ricorda Celestino. “Mia nonna mi raccontava che nella Chiesa di Santa Margherita venivano nascosti gli austriaci che in cambio contribuivano lavorando – spiega Celestino-. Uno di questi si è fermato: si chiamava Silvio l’austriaco”.

Strette tra partigiani e nazisti, le comunità che vivevano su questo versante delle Alpi erano sempre a rischio. Sulle Alpi marittime,  il medico Felice Cascione venne fucilato dai fascisti e, in seguito, combatté anche Italo Calvino che scrisse: “la vita dei partigiani sulle Alpi Marittime era diventata sempre più dura perché, come retrovia del fronte, la nostra era di importanza vitale per i tedeschi che dovevano tenere ad ogni costo sgombre le strade; per questo non ci hanno mai dato tregua, né noi a loro; e per questo la nostra zona ha avuto una percentuale di caduti tra le più alte”.Maria, presidente di Brigì, invece, ricorda: “Mio nonno ha prestato ai partigiani la macchina da scrivere. Sul rullo era rimasto il nome della brigata. Quando sono arrivati i nazisti, per fortuna, non la hanno trovata o sarebbe stata la fine”. Mentre Celestino racconta spesso la storia di un bambino di Mendatica smarritosi nel bosco. “Così il padre, accesa una lanterna, lo andò a cercare- dice- I nazisti, in perlustrazione, videro la luce e sparano una raffica di mitra. Nell’osteria del paese c’erano dei partigiani, uno dei quali innamorato di una ragazza del paese che, uditi gli spari, scapparono. Altrimenti Mendatica sarebbe stata ridotta a un cumulo di cenere”.

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E’ invece una leggenda quella che racconta Pietro ma che racconta bene l’origine dell’idea di comunità e del bisogno di aggregazione presso la civiltà delle malghe. Qui, si narra che un uomo ricco e avaro oltre misura di nome Sandinasso attraversasse il ponte di pietra costruito dalla comunità di Valcona senza, però, aver mai contribuito alla tassa nè alle pulizie per la manutenzione delle strade, così come tutti gli altri. Un giorno, i suoi figli, ancora bambini, rimasero da soli nelle malghea. Proprio in quei giorni il fiume Tanaro straripò, spazzando via tutto. Preoccupato per i suoi figli, corse da loro e attraversò il ponte. I campari, le guardie del comune, erano lì ad aspettarlo nascosti. Così venne arrestato per non aver pagato le tasse e portato in prigione. Gran parte del suo terreno gli venne confiscato ma non tutto: gli lasciarono la malga e la terra per poter continuare a offrire il suo lavoro e vivere come tutti gli altri, contribuendo al bene della comunità.

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Le malghe attorno al monte Sacarello sono ancora intatte, fatta eccezione per quella di Poilarocca che è stata abbandonata e distrutta. Queste casette di pietra con gli scalini sui quali sedersi per parlare, nessun chiavistello e le finestrelle, erano anticamente le case dei contadini e dei pastori che venivano qui in alpeggio con le bestie. “La chiesa, l’aia, il lavatoio, il forno: la struttura era essenziale ma tutto aveva una funzione sociale” spiega Pietro.

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Il tentativo di creare una cooperativa di comunità in questa zona, dunque, non è estraneo alla cultura delle Alpi. Al contrario: ha un legame straordinario con il passato. Si tratta, ora, però, di reinventarne le forme per far tornare a crescere l’economia su questi monti e dare un futuro alla montagna perché – così come ha detto il giovane Ludovico- “non è vero che la natura da sola riesce a sopravvivere autonomamente. Ha bisogno dell’uomo”. Così come non è affatto vero che la società possa esistere senza comunità, né l’economia senza le persone.